lunedì, maggio 01, 2006

E lavorarono felici e scontenti


Sabato scorso, 29 aprile, Canale5 ha mandato in onda il film Una donna in carriera, come non fermarsi a guardarlo. Non solo perché sono una donna, ma anche perché è uno di quei film di grande successo. Film che dopo tanti anni continuano a interessare.

Due gli elementi cardine della storia: il mito americano ed i conflitti sul posto di lavoro.

Il mito americano. Siamo negli anni ottanta. Il messaggio è chiaro ed ineluttabile: idee e determinazione bastano per raggiungere tutti gli obiettivi, anche i più difficili e lontani.

Ecco servita la storia di una segretaria che, con le sue sole forze, riesce a cambiare il proprio status sociale. Un evento favorevole ed un po’ di ingegno le permettono di raggiungere importanti risultati.

I conflitti sul posto di lavoro. Chi non ha mai avuto problemi con un collega, oppure - come nella pellicola - con un responsabile?

Dal film sembra emergere che, come in amore ed in guerra, anche nel lavoro tutti i mezzi sono leciti.

In fondo i posti di lavoro non sono simili a dei campi di battaglia, in cui capacità professionali e diplomazia sono le armi a disposizione per raggiungere gli obiettivi prefissati?

Tralascio il mito americano, al limite dell’utopia. Mito a cui risponderei con la famosa canzoneUno su mille ce la fa”. Mi diverte di più soffermarmi sul secondo punto.

Incappare in un responsabile simile a quello nel film interpretato da Sigourney Weaver, così interessato al proprio tornaconto personale da calpestare e sfruttare chi gli é vicino, sembra non essere poi così raro.

Eppure certe figure aziendali dovrebbe motivare, far crescere chi gli ruota intorno.

Non si fa che parlare di spirito di squadra, parola di cui si abusa anche negli annunci di ricerca del personale, ma poi la routine sembra essere molto diversa.

Che la capacità di far aumentare il business aziendale sia l’unico parametro su cui vengono misurate e fatte le nomine di certi "capi?"?

La forza di un’azienda è data dalle sue risorse. Risorse economiche ma anche e soprattutto umane.

Se non si investe su di esse è come costruire una casa senza fondamenta.

In tutte le società, grandi o piccole che siano, si parla di standard produttivi e qualitativi. Ma è possibile che tutto si traduca solo in numeri?

Elemento cardine se ci si confronta con le realtà commerciali. In questi settori molte parole sono spese su aspetti quantitativi: numeri di telefonate, di appuntamenti, di contratti, di budget, di produzione e qualsiasi altro ipotizzabile per parlare dell’organizzazione del lavoro. Ma quanto tempo invece si dedica in maniera seria e costante alla formazione delle risorse umane? E quanti titolari di azienda si sono realmente soffermati in maniera approfondita a capire la soddisfazione dei propri dipendenti?

Mi viene in mente un’azienda italiana che è stata al centro dell'attenzione proprio su questo tema: Technogym. Questa società ha fatto della soddisfazione del personale, non solo in termini economici ma soprattutto umani, il fondamento della sua politica aziendale.

Chi lavora passa più tempo con i colleghi che con i propri cari. Si dice che si vive una volta sola, allora il nostro tempo è un bene prezioso che forse merita più rispetto. Rispettarlo vuol dire riconoscere chi lavora come essere umano e non solo come anello di una catena di montaggio.

Le aziende amano definirsi una famiglia. Molte in base alle possibilità, o alla voglia di investire, per le festività più importanti organizzano cene oppure fanno piccoli pensieri al loro personale. Ma quante investono concretamente sulla comprensione della soddisfazione dei collaboratori.

Tra le cause principali di insoddisfazione c’è quella professionale, causata spesso da ambienti di lavoro malati.

Oggi è la festa del 1 maggio, la festa dei lavoratori. Sarebbe bello sentire slogan che richiamino alla qualità del lavoro, perché Technogym non resti un esempio isolato.

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